Abbiamo assistito alla recente, defatigante campagna informativa (e disinformativa) sull’olio di palma, dove non mi pare che siano sortiti vincitori o vinti, e che – per quanto io comprenda – ce lo ritroviamo o meno nei prodotti che mangiamo senza che siano state dimostrate indefettibilmente né l’una né l’altra tesi (innocentista e colpevolista) che si sono fronteggiate e – credo – ancora torneranno a farlo.
Lo prendo indegnamente a prestito, questo esempio, solo per parlare di una cosa tanto importante, a prescindere dal merito (che trascuro per ovvie ragioni) perché riguarda il nostro vivere quotidiano, ciò che mangiamo, cioè il soddisfacimento del primo e più essenziale bisogno giornaliero.
Intorno a questo bisogno, più rudemente e meno “scientificamente”, scopriamo che da un po’ di tempo le mafie si stanno arricchendo, e non vendendoci prodotti buoni nè a basso prezzo.
Esse si sono intromesse (non inserite) nella “catena del valore”, anche “catena alimentare” dell’economia agricola nazionale ed internazionale, guadagnando molto di più di coloro che vi lavorano, sudando sia fisicamente che economicamente sui campi e nelle cascine.
Voglio ricordare che il settore dell’agricoltura è in crisi da diversi anni, per eccesso di offerta il più delle volte (la nostra terra è rigogliosa), ma anche per politiche dissennate sia a livello nazionale che europeo, fondate più sugli aiuti (anche questi, preda facile delle associazioni criminali) che sulla programmazione.
Prima di continuare, però, deve essere da chi scrive e da subito spiegato qual è la scaturigine di queste riflessioni, e di quelle che seguiranno. Un caso di cronaca giudiziaria, che ha visto giorni fa la confisca di prodotti di reato a soggetti avvicinabili (a quanto pare) al boss dei boss, Matteo Messina Denaro.
Una notizia che ci deve rendere ancora una volta, e ovviamente, fieri delle forze dell’ordine e dei magistrati (di Trapani, questa volta). Le confische hanno riguardato 4 aziende, 108 immobili (tra cui terreni agricoli e magazzini annessi e commerciali) ad imprenditori vicini alla cosca di Campobello di Mazara, comune della provincia di Trapani. Tredici milioni acquisiti dallo Stato.
Al di là dell’excursus dell’operazione, brillante e rinvenibile nelle descrizioni già fatte da numerosi giornali, c’è una cosa che colpisce l’analista: il business delle “olive”.
Olive siciliane notoriamente buone per l’olio, trasformate dopo vari passaggi (con ricarichi e contro fatturazioni per falsi carichi e scarichi da parte di società di comodo e/o esistenti, con amministratori vicini alle cosche) e pervenute agli oleifici della mafia anch’essi, poiché fittiziamente intestati a due imprenditori per sottrarli a sequestro a fronte di passate indagini e condanne del capomafia Leonardo Bonafede e altri.
Una “trasformazione” non tanto del prodotto, quanto delle “imprese”. Questo fa la c.d. “agromafia”.
Cosa c’è di più bello e naturale, costruttivo e socialmente utile, di produrre alimenti e commercializzarli, soprattutto se con un marchio doc?
Ma la particolarità delle imprese mafiose è quella di sostenere la gestione, comunque essa vada (la perdita è esclusa) non tanto con il ricavato delle vendite, effettive o fittizie che siano, quanto con il riciclaggio di denaro immesso nelle casse di queste, così “smerciato” nelle compravendite quotidiane di un’impresa che si rispetti. Tale strumento permette di farlo arrivare, questo denaro, dove si vuole che arrivi, cioè a sostentare altre famiglie, affari, attività che devono “girare”, per produrre a loro volta soldi e coperture per altrettante attività e persone dell’imprenditoria criminale.
In questo caso, poi, si aggiunge la beffa che il denaro riciclato attraverso l’oleificio andava a sostenere imprese – con idonee commesse di lavori – riconducibili a tale Rosario Cascio, a detta degli investigatori “emanazione imprenditoriale del latitante Matteo Messina Denaro”.
Inoltre, lo standing delle imprese riempite di denaro e con bilanci rigogliosi quanto le terre su cui si coltivavano le olive, potevano così ottenere finanziamenti pubblici, proprio come quelli all’agricoltura e all’impresa che nel sud del nostro paese sono sempre stati distribuiti con prodigalità dallo Stato e dall’Unione europea.
La singolarità che qui va fatta rilevare, tecnicamente e senza indulgenze alla retorica o al moralismo, risiede nel fatto che con il fenomeno delle agromafie, ma anche di altri settori imprenditoriali più disparati (possibilmente ad alto ricarico o con filiere sufficientemente lunghe o “allungabili”), la delinquenza organizzata compie tre azioni lucrose:
– guadagna dal normale business di filiera, direttamente o indirettamente (dove non trova accordi, li ottiene con la forza dell’intimidazione e dell’estorsione);
– immette denaro di provenienza illecita nella suddetta filiera, giustificandolo con l’attività e così “smacchiandolo” come nessun detersivo saprebbe fare;
– si posiziona sul “terreno” (è il caso di dirlo), dato che, come dicevo in premessa, il ritorno alla terra è stato scoperto – non tanto tempo fa – dalle mafie come sede di coperture, di guadagni, di summit (nei casolari), di latitanza.
Senza trascurare, attraverso il rispetto – ca va sans dire – delle norme nazionali ed europeee a garanzia dei prodotti, la penetrazione dei mercati internazionali e, per tale via, la migrazione ed il posizionamento strategico negli Stati industriali, ove la catena può allungarsi e “finanziarizzarsi”. Niente male per coloro che vogliono apparire “contadini”, ingenui coltivatori, benefattori del made in Italy, mentori della buona cucina. I costi sono troppo alti. Cerchiamo ristoranti (canali di sbocco dei suddetti prodotti, assai spesso) ove lo chef sia bravo a prescindere dall’olio che usa.
Ranieri Razzante
Esperto di criminalità organizzata e terrorismo